Il ‘68, un appuntamento mancato
Le commemorazioni mi lasciano sempre perplesso. Stiracchiate dalle contingenze, spesso sono solo occasioni mancate per rileggere la storia attraverso una critica fondata e rigorosa. Quest’anno, poi, per i cinquant’anni del ’68 si è largheggiato: libri, dibattiti, congetture. Quel movimento è stato sezionato e analizzato al microscopio della cronaca in ogni sua forma ed espressione. Origine del riscatto sociale di questo paese o responsabile di tutti i mali che lo affliggono? Risposte attendibili non ne sono venute fuori e se quegli anni continuano a essere letti con gli occhiali dell’attualità, forse, non ce ne saranno nemmeno tra dieci anni.
Ma così va il mondo. E mentre il genetliaco del ’68 “se ne sta lentamente per finire”, come una domenica di settembre di gucciniana memoria, rimane ancora una volta il quesito sul perché quel movimento globale e pervasivo, nel nostro paese abbia perso l’occasione per interrogarsi sui legami tra modello di sviluppo e risorse naturali. La questione ecologica, infatti, fu liquidata anche dai protagonisti più accorti e intelligenti come un problema “per ricchi annoiati” o, nel migliore dei casi, come una violenza perpetrata sulla natura da un sistema sociale ed economico improntato esclusivamente sullo sfruttamento dell’individuo e delle risorse, come lo ha definito Dario Paccino ne L’imbroglio ecologico.
Eppure, nella comunità scientifica del mondo anglosassone esisteva già dagli anni ’60 (il libro La primavera silenziosa di Rachel Carson fu pubblicato nel 1962) una radicata percezione che ci fosse qualcosa che non andava nel nostro modo di crescere e di svilupparsi. E che forse non tutto era riconducibile al conflitto di classe o alla dicotomia tra socialismo e cultura liberale. In Italia, invece, a fronte di una forte spinta “industrialista” sulla quale convergevano gli interessi sia della classe operaia, sia degli imprenditori, la parte che esulava dal Pil preoccupava solo quando riguardava la salute dei lavoratori all’interno della fabbrica, intento meritorio, ma riduttivo. La difesa del territorio era invece “appaltata” a una borghesia illuminata che tendeva a limitare la questione ambientale alla pianificazione urbanistica e alla difesa del paesaggio dalla speculazione edilizia. I disastri idrogeologici dei giorni passati hanno dimostrato quanto quegli sforzi alla fine siano stati vani. Oggi è evidente come questa parziale rappresentazione dell’ambiente non fosse sufficiente per esaurire la complessità della questione ecologica. In questo contesto di uso e abuso della natura trovava ampio spazio la maggioranza della popolazione che vedeva nella crescita economica indiscriminata l’unica occasione di riscatto dalla povertà che ancora affliggeva una larga parte del paese. E le risorse naturali erano evidentemente il carburante unico per lo sviluppo di questo modello di società.
A uscire fuori da questo senso comune generalizzato fu Aurelio Peccei, economista e dirigente industriale di vaglia, che nel 1968 fondò il Club di Roma. L’intuizione, avveniristica per il tempo, fu quella di mettere insieme un panel di scienziati, imprenditori, politici di tutto il mondo per analizzare le problematiche del pianeta alla luce del rapporto tra risorse naturali e crescita economica. In pratica un’analisi ecosistemica del nostro modello di sviluppo.
Questo gruppo di intellettuali appena qualche anno dopo avrebbe commissionato al Mit (Massachusetts Institute of Technology) uno studio sul rapporto tra accumulazione della ricchezza e consumo delle risorse che uscì nel 1972 con il titolo The limits to growth, in cui si dimostrava ampiamente che il nostro pianeta era “finito” e una pressione eccessiva sull’ecosistema avrebbe potuto mettere a rischio il futuro della nostra civiltà. Iniziarono così a farsi strada la coscienza del limite e i punti critici del nostro sistema di crescita.
Ma la parte più originale della riflessione del Club di Roma fu quella di assumere come parametro fondamentale il divario socio-economico tra Nord e Sud del mondo come ragione prima del disequilibrio planetario. Una teoria che nel lungo termine sarebbe diventata patrimonio condiviso a livello collettivo ed elemento fondante della cultura ambientalista.
Ed è qui che il movimento del ’68 mancò quell’appuntamento epocale che probabilmente avrebbe modificato in maniera definitiva lo sviluppo economico di questo paese. Quegli anni di grande trasformazione, di intelligenza, di curiosità, di ribellione potevano rappresentare il punto di incontro e di relazione tra ecosistemi e sistemi economico-sociali e rendere compatibile limite e progresso. Purtroppo quella lunga stagione fu inghiottita quasi interamente dalla politique politicienne e per passare alla connessione tra ecologia ed economia ci sarebbero voluti ancora molti anni e una lunga teoria di guasti e sciagure di cui stiamo ancora stimando i danni.
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